Per capire cosa specifica la nostra pratica della psicoanalisi può essere utile guardarci dall’esterno, rivolgendoci ai nostri critici. C’è un orientamento nella galassia lacaniana che vede il Campo freudiano e le sue Scuole incentrate intorno alla tesi – che considerano ideologica – del “declino del Padre”. La considerano ideologica perché la attribuiscono al Lacan degli anni Trenta, quello di Les complexes familiaux [1]. È qui che Lacan si riferisce per la prima volta a un declino dell’imago paterna e a una contrazione della famiglia tradizionale nella dimensione più ridotta della famiglia coniugale. Secondo questi critici, il primo dei quali è Markos Zafiropoulos [2], avremmo in questo testo un Lacan durkheimiano. È Durkheim infatti a mettere in luce questo contrasto tra l’antica famiglia patriarcale e la moderna famiglia coniugale [3]. Lacan si sarebbe poi allontanato da Durkheim negli anni Cinquanta, dopo l’incontro con Levi-Strauss, dando vita all’impostazione strutturalista. Da Levi-Strauss Lacan avrebbe rilevato l’idea di “significante fluttuante”, che Levi-Strauss, nella prefazione al libro di Marcel Mauss [4] indica come simbolo zero, facendone il perno, secondo Zafiropoulos, per la costruzione del significante del Nome-del-Padre, e distinguendo a partire da qui la funzione simbolica paterna della presenza del Padre. Su questo presupposto Zafiropoulos considera che sul declino del Nome-del-Padre si incentra tutta la nostra clinica, la tematica dei nuovi sintomi con tutto quel che ne consegue come esercizio della psicoanalisi applicata. Poiché, secondo la sua lettura, la patologia contemporanea deriverebbe da un indebolimento della funzione simbolica del Padre, il rimedio non potrebbe essere che il suo rafforzamento, e il conseguente ripristino di questa funzione.
Questa lettura presenta un’evidente distorsione della nostra clinica, giacché nella nostra pratica non abbiamo affatto preso come obiettivo la restaurazione del Nome-del-Padre, piuttosto il contrario. È interessante però capire la logica da cui deriva questa mistificazione.
Il punto chiave è proprio nell’interpretazione che Zafiropoulos fa del simbolo zero come Nome-del-Padre. È vero che Lacan, in Funzione e campo, menziona questo simbolo zero [5] dopo un paragrafo in cui introduce il Nome-del-Padre, e il Nome-del-Padre è, fino al Seminario, una sorta di significante supplementare, metalinguistico, che ha la funzione di coordinare l’insieme dell’Altro. Subito dopo però, nel Seminario VI, Lacan asserisce che non c’è Altro dell’Altro, ovvero non c’è il significante che sutura il sistema simbolico.
Nel testo a cui Lacan fa riferimento, Levi-Strauss interpreta il mana – il termine melanesiano che indica in genere una forza vitale di origine soprannaturale – come un significante fluttuante, come indice di quel che considera una sovrabbondanza di significanti rispetto ai significati. Lo considera quindi equivalente a quelle parole tuttofare in francese come truc, machine, quel che noi in italiano diremmo un aggeggio, un affare, una roba. In ultima istanza sono termini che esprimono quel qualcosa indefinibile che se nel mondo polinesiano è indicato con il termine mana, è tuttavia assolutamente equivalente a un termine dell’antico scozzese che nel mondo occidentale abbiamo adottato: il glamour [6]. Come il mana, anche il glamour appartiene al campo semantico della magia, ed l’incantesimo che fa apparire una persona più bella, più alta, più forte. In italiano è il fascino, è quel certo non so che, qualcosa di indefinibile che una persona possiede e che lo rende attraente. Il termine fascino viene poi dal latino fascinum, che indica generalmente un amuleto contro il malocchio, o un incantesimo per stregare qualcosa o qualcuno. Si tratta per lo più di un amuleto fallico. Priapo viene infatti anche denominato Fascinus. In tutte le forme in cui viene espresso si tratta di qualcosa che eccede le classificazioni del simbolico, o che non vi è compreso. In fondo quindi Lacan e Levi-Strauss affrontano il problema del simbolico in modo analogo: partono dall’idea di una mancanza d’armonia tra significante e significato, ma prendono poi due cammini diversi [7].
Per Levi-Strauss la disarmonia tra significante e significato si manifesta in una sovrabbondanza di significanti che non si riescono a collocare in un significato. Dal suo punto di vista l’eccedenza sta dalla parte del significante. Le cose si possono vedere però anche dall’altro verso, nel senso cioè in cui la disarmonia consiste in una scarsità di significanti rispetto a quel che c’è da significare.
Da qui vediamo che se Levi-Strauss fa del significante supplementare una sorta di punto di capitone che stabilisce il rapporto tra significante e significato, ne compensa la sperequazione, per Lacan questo simbolo zero è piuttosto qualcosa che diventa indice della mancanza nell’Altro, quel che sigla :
Nel linguaggio degli anni Cinquanta Lacan parla di mancanza, e la mancanza è qualcosa che trova alla fin fine un suo posto nell’ordine. In base a questo definisce la fine dell’analisi, l’accettazione della castrazione considerata come una mancanza che niente può colmare. Nell’ultimo Lacan però la prospettiva cambia, si parla piuttosto di buco, e il buco non ha posto in nessun ordine, è una sorta di risucchio nel sistema, una potenza di destabilizzazione, ciò che mantiene un differenziale, e questo spostamento dalla mancanza al buco mostra anche come la pulsione ha ritrovato una sua funzione nell’ultimo insegnamento di Lacan.
In ultima istanza vediamo dunque che Levi-Strauss va nel senso di ancorare, fissare, equilibrare, regolare il sistema simbolico. Da qui la concezione che si fa della malattia mentale riconducendola completamente a una condizione definibile come sociogenetica. Si tratta, secondo lui, di subordinare il fatto psicologico al fatto sociologico. Considera così che le condotte psicopatologiche individuali consistono nella formazione di un simbolismo indebolito, diverso da quello sociale. È chiaro che in questa prospettiva il trattamento delle problematiche mentali può consistere solo nel ricondurre le deviazioni mentali al mainstream del simbolismo collettivo. In questo senso, prendendo questa prospettiva, è chiaro che il Nome-del-Padre diventa ciò di cui si devono ristabilire le prerogative per condurre il soggetto deviante alla guarigione. In questo si manifesta quel che è il limite di fondo delle concezioni socio-genetiche della malattia mentale: la prospettiva che offrono è quella dell’adattamento. Questo vale anche se prendiamo le cose nel verso opposto rispetto a quello di Levi-Strauss, come nel caso di Basaglia. Nella storia della psichiatria italiana, e non solo, Basaglia ha svolto un ruolo fondamentale. Proprio partendo da una concezione sociogenetica della malattia mentale, ha fatto sua e realizzato una spinta riformatrice che ha trasformato la situazione dell’assistenza psichiatrica in Italia. Basaglia giunse infatti alla conclusione che non è il malato a dover essere aggiustato, ma la società, e che la malattia mentale sarebbe sparita in una società giusta. È una prospettiva più interessante di quella di Levi-Strauss, ma parte comunque del presupposto di una totale suturazione tra soggetto e società. Il punto di mira in ultima istanza della teoria sociogenetica è l’adattamento, sia nella versione conservatrice di Levi-Strauss, dove si tratta di accordare il soggetto ai significanti dominanti del simbolismo sociale, cioè a ciò che funge da Nome-del-Padre, sia nella versione rivoluzionaria di Basaglia, dove si tratterà di accordarsi a quello che sarà, quando avverrà, il simbolismo della società giusta.
Fotografia : ©Véronique Servais.
[1] Jacques Lacan (1938), I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Einaudi, Torino 2005.
[2] Markos Zafiropoulos, Lacan e le scienze sociali, Alpes, Roma 2019.
[3] Emile Durkheim (1982), “La famille conjugale”, in Revue philosophique, 1921.
[4] Claude Levi-Strauss (1950), “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in Marcel Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 2000.
[5] Jacques Lacan (1966), “Funzione e campo della parola e del linguaggio” in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, pp. 271-271.
[6] Marco Focchi, Il glamour della psicoanalisi, Antigone editore, Torino 2012.
[7] Jacques-Alain Miller, 1,2,34, Corso inedito, lezione del 7 marzo 1985.