Ci sono donne che vogliono un figlio. Tra queste, ci sono quelle che non riescono ad averlo, mentre altre si ritrovano incinta senza desiderarlo: il desiderio non si trova là dove il discorso del padrone l’immagina.
La paziente B. non manca di nulla e non chiede nulla. Un modo d’essere che la determina e attraverso il quale si ritrova per la seconda volta a mettere al mondo da sola il suo secondo figlio nella casa di famiglia. Una seconda gravidanza segreta, un altro figlio che, come il primo, è inatteso. Questa volta, dopo il parto, i suoi genitori la portano in ospedale e i servizi sociali, inquieti, danno in affido il bambino.
Gli educatori dell’Aiuto Sociale dell’Infanzia, chiamati a valutare le capacità genitoriali di B., la giudicano insensibile e il fatto che, secondo una logica rigorosa, la giovane mamma non chieda mai notizie del suo bambino, non fa che rafforzare la loro opinione. Gli educatori invece di andare incontro alla madre per ascoltarla, si aspettano da lei degli atti che testimonino del suo desiderio per il bambino. Un’esigenza superegoica che fa scivolare il desiderio sul versante della volontà, secondo un sentire comune che si palesa nell’espressione «volere è potere». Secondo un’altra logica l’Altro giuridico dichiara quindi il bambino abbandonato e adottabile.
La parentalità è un concetto che data dalla fine del XX secolo, frutto di uno studio voluto dal Ministero del Lavoro e della solidarietà e che darà luogo a una politica del sostegno della parentalità. Marie-Hélène Brousse definisce questo concetto un neologismo [1] costruito secondo lo spirito di un’epoca in cui il diritto della famiglia passa dall’autorità paterna a quella genitoriale.
La genitorialità è in questo senso un sintomo che si è imposto nelle società moderne e che trova il suo punto di orrore nella massima attenzione conferita agli abusi di cui il bambino può essere vittima [2].
B. non discute la decisione sociale che la concerne, il fatto è unicamente che lei «non vede le cose in tal modo». Attraverso quest’unico enunciato B. confida che lei non è affatto indifferente a una tale separazione. Si potrebbe persino formulare l’ipotesi che l’atto dell’Altro sociale, e non l’atto della nascita, conferisca al bambino lo statuto di oggetto a per la madre, in quanto, una volta separato, crea la mancanza. Un oggetto cioè che, una volta isolato, lei può desiderare a minima. B. avrebbe ben voluto ad esempio accompagnare suo figlio alle visite mediche. Un punto importante per lei in questa decisione riguarda la filiazione che il bambino conserva.
Oggi la genitorialità è quindi un significante del discorso del padrone, in cui «padre» e «madre» sono ridotti a una funzione chiamata «genitoriale». Un significante che è paradigmatico, quindi, delle nuove forme di discorso nell’era del declino della funzione paterna e della differenza significante, «padre», «madre». Filiazione invece è un termine di diritto del XIII secolo derivato dal latino classico filius, figlio, che designa il legame di parentela che unisce un bambino ai suoi genitori. La parte simbolica della filiazione s’inscrive nella legge. In questa vignetta clinica, il marchio simbolico del nome restituisce al bambino la sua storia, ricoprendo in tal modo il reale della sua nascita. Per la madre questa decisione salvaguarda la parte del suo desiderio per il bambino in quanto « figlio della famiglia».
Se la genitorialità non esclude il simbolico, non è così per quel che riguarda l’atto medico.
Altra vignetta: la paziente C. vuole un figlio, ma non riesce a rimanere incinta. Si rivolge allora alla fecondazione assistita, perché «attecchisca». Contemporaneamente alla gravidanza la sua psicosi si scatena e il feto diventa un parassita reale. Quando la medicina si sforza sempre di più di rispondere alla richiesta: «Dottore, voglio un figlio!» [3], tappa la domanda disdegnando in tal modo l’inconscio che apre e denuda un reale.
Nel 1960 nel suo Seminario L’etica delle psicoanalisi, Lacan lo sottolineava in questo modo: «Così come nell’arte c’è una Verdrängung, una rimozione della Cosa – e nella religione c’è forse una Verchiebung – nel discorso della scienza si tratta propriamente di Verwerfung. Il discorso della scienza rigetta la presenza della Cosa, per il fatto che, nella sua prospettiva, si profila l’ideale del sapere assoluto, e cioè di qualcosa che pone ugualmente la Cosa, ma senza darle importanza. Tutti sanno che nella storia una tale prospettiva si rivela alla fin fine come rappresentazione di un fallimento ». [4]
Traduzione: Emanuela Sabatini
Revisione: Lorenzo Speroni
Fotografia: ©Pascale Simonet – https://www.pascale-simonet.be/
[1] Brousse M.-H., « Un néologisme d’actualité : la parentalité », La Cause freudienne, n° 60, 2005, p. 120.
[2] Ibid., p. 122.
[3] Cf. Anonyme, « L’enfant du Docteur », Scilicet, n° 5, Paris, Seuil, coll. Champ Freudien, 1975, pp. 141-146.
[4] Lacan J., «Il seminario, libro VII, L’etica della psicoanalisi», ed. it. a cura di Antonio Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2008, p. 156.