Contrariamente alle mie abitudini, non presenterò casi clinici, ma parlerò di come alcune esperienze letterarie aiutino il clinico a guardare in fondo a ciò che, con linguaggio lacaniano, chiamerei “il significante infertilità” nella sua complessità etica ed estetica. Ho seguito, negli anni, molte situazioni di infertilità. Ora accade a me, come soggetto, di trovarmi in una condizione malinconica di fronte alla pena di una coppia con cui ho una intensa relazione parentale. Ciò mi impedisce, come una barriera, di entrare nei dettagli della Cosa, se non attraverso una riflessione almeno in parte differita, che mi ricollochi dentro la dimensione immaginaria. I riferimenti al piano artistico e letterario mi aiuteranno a esprimere il dolore, a lenirlo attraverso la scrittura.
L’ossimoro di Kantor
Quando Tadeusz Kantor crea la sua opera fondamentale, La classe morta, mostra la condizione “infanzia” – potremmo anche dire: il significante “infanzia” – come condizione dell’artista. La sua “scoperta”, così lui la chiama, trova soluzione in una pièce: una continua sfilata di corpi adulti, anziani, folli, vestiti con un grembiule nero da scolaro; d’ora in poi potremmo definirla “la soluzione Kantor”.
Il luogo dell’opera è una classe delle scuole elementari o medie, e i banchi in cui gli alunni si siedono è un insieme di panche che formano un solo pezzo di legno. Una versione ribaltata rispetto a Pinocchio, romanzo di formazione infantile italiano. Qui il burattino si incarna, là, con Kantor, un soggetto, in carne ed ossa, regredisce allo stadio infantile di manichino. La scena più importante dell’opera consiste in una sfilata di uomini e donne adulte, giovani o anziane, che, entrando nello spazio della classe, portano sulle spalle un manichino vestito come loro: il manichino di una bambina o bambino delle scuole elementari: grembiule nero, colletto bianco. Durante la sfilata, l’ultimo gesto sarà quello di accatastare i manichini, pendenti dalle spalle di ognuno, in un luogo della classe, come in una fossa comune. È il bambino morto in noi.
Kantor fa un passo avanti rispetto a Ferenczi: non si tratta di incontrare nell’altro il bambino ferito, di cui prendersi cura, con tenerezza. Si tratta di constatare che il bambino, che siamo noi, si è asciugato, pietrificato, mummificato.
È doloroso riconoscere il fenomeno no-kids per chi lo attraversa: dolore fisico e sofferenza psichica. Il dolore fisico, come osserva Elaine Scarry (1987) è come un buco nel linguaggio, non può essere detto, non si può descrivere. La sofferenza soggettiva è espressione corporea, viseità dissidente, inguardabile.
In primo luogo si tratta del soggetto femminile che, sul versante biologico ha precocemente perduto la fertilità.
L’ha irreversibilmente perduta? In molti casi si tratta di una riduzione, come nel paradosso dell’endometriosi: nelle linee guida per il trattamento e la cura dell’endometriosi si scrive: “La malattia regredisce con l’amenorrea e la menopausa”. In altri termini la condizione dolorosa dell’endometriosi, che riduce notevolmente la fertilità, può risolversi se la donna rimane del tutto infertile. Si tratta di un paradosso che, se si rimane sul piano della discorsività tecnologica, non ammette linee di fuga, un dispositivo sigillato, totalitazzante.
Altre ragioni di infertilità hanno a che vedere con l’azoospermia o l’oligospermia maschile. Le nuove biotecnologie, in questi e in altri casi, prevedono interventi di fecondazione assistita omologa o eterologa e, prima ancora di sollevare questioni morali, o di moralismo spicciola, implementano una serie di interventi incerti, ripetuti, a tratti traumatici, che attivano frequenti episodi di medicina difensiva e producono iatrogenicità.
Fuori da questi tentativi biotecnologici, c’è il fenomeno sociale dell’adozione, o dell’affido. Che vedremo dopo avere scritto qualcosa sull’intervento psicoanalitico.
La clinica di fronte all’infertilità. L’ossimoro biologico
Nello specifico della cura psicoanalitica contemporanea, si tratta del femminino, nella sua congiunzione erotica con l’uomo, che determina una proliferazione di nuovi sintomi. Ne elenco alcuni da manuale, perciò carichi di bêtise: dispareunia, impotenza maschile (elencata dai codici cattolici come impotentia coeundii e impotentia generandi), presenti anche, in maniera confusa (Barbetta, 2021), nel DSM-5, ecc. Tuttavia questi sintomi, classici esempi di bêtise psichiatrica, non esauriscono affatto la fenomenologia contemporanea. Né le conquiste della cosiddetta “liberazione sessuale” che ha come principale vantaggio etico di considerare perfettamente rispettabile perfino una coppia che non ha rapporti sessuali di alcun tipo, anche questa è liberazione, dopo tutto.
Lo psicoanalista dovrebbe riflettere sulla mostruosità di non considerare valida una relazione di coppia che non ha intercorsi sessuali – altro che sessuologia -, abbiamo forse dato troppa attenzione alla libertà sessuale come libertà di “fare sesso”, trascurando la libertà di “non farlo”.
Nella modernità, il tema fondamentale era la contraccezione. Nella contraccezione si potevano avere rapporti sessuali con coito senza avere figli. Oggi la postmodernità ha introdotto biotecnologie diverse. Nella post-modernità si possono avere figli senza rapporti sessuali con coito.
Il passato è carico di storie di giovani donne “sedotte e abbandonate”, nel migliore dei casi di giovani fuggiaschi, con le forme possibili di riparazione, come la fuitina siciliana. Oppure di donne stuprate, pulizia etnica, risalgano alla vera storia della Llorona, donna stuprata durante un massacro spagnolo nel territorio che oggi chiamiamo Messico, che uccide il nascituro a memoria dei massacri futuri.
Bataille nel limite dell’utile, riportando le pratiche dei sacrifici Aztechi, descrive una differente maniera di osservare i rapporti umani durante i rituali. Il sacrificio umano è onore. La rovina, il dispendio, la dépense, di cui scrive anche altrove, è parte della comunità. Quella parte, sussiste ancora, ma non può essere dichiarata. Dobbiamo, possiamo, come clinici, permetterci una riflessione di questo tipo? Evocare una nuova società del dispendio che costringe il soggetto a sacrificare la fertilità alla carriera? Non è di ciò che scrive Bataille quando parla dell’onore con cui il Re/Dio trapassa attraverso il proprio sacrificio?
Qualcuno sostiene che la comunità di Bataille sia un’utopia. La si è incontrata in Irlanda presso la comunità/lavanderia gestita dalle suore di Magdalene – dove venivano sequestrate giovani donne violate dal padre, dal fratello o dal parroco -; donne “troppo fertili”, così come “troppo fertili” erano la famiglie povere, contadine, che non praticavano la contraccezione, oggetto di disprezzo da parte delle classi medie intellettuali benpensanti.
Durante la modernità, il significante “infertilità” è espresso, in maniera magistrale nell’opera di Federigo García Lorca Yerma. La tragedia di una giovane donna che scopre, man mano che il tempo passa, di essere infertile in un mondo rurale dove la fertilità è un valore fondamentale. Dove “infertilità” assumeva quel valore di polisemia regolata (Derrida, 1972) che accomunava il soggetto infertile alla pianta grama.
Oggi la comunità di Bataille si può incontrare in seduta; si tratta di donne, o di coppie, che, sul piano biologico parlano dell’infertilità come di una questione di biotecnologia, o, come direbbe Michel Foucault, di bio-politica. Tuttavia, dietro la razionalizzazione che serve a sopravvivere, si tratta di ascoltare il dolore dell’infertilità. Seguendo le tracce di Bataille, dietro il discorso societario – la carriera, l’impegno lavorativo, la performance – tipico della performatività, si tratta di raccogliere il significante “infertilità” che si presenta, come un residuo, nelle porosità della comunità. E qui, al di là della “infertilità biologica” ci si trova di fronte all’”infertilità mentale”. L’infertilità come affezione mentale (Deleuze, 1953)
Gli sguardi degli anziani genitori, le impressioni della famiglia allargata, che viene a sfumare nella mancanza degli incontri con gli altri, i fratelli, i cugini, gli amici “fertili”. Cogliere il fenomeno puramente psichico di una coppia biologicamente “fertile”, di fronte all’evidenza dell’infertilità, cioè all’emergenza del fenomeno comunitario che disgrega il tessuto sociale: il sacrificio di un bambino mai nato, della nostra dimensione infantile, del gioco erotico, la presenza, dentro ognuno di noi, del manichino kantoriano da accatastare e abbandonare. È necessario ripartire dall’opera di Kantor.
L’adozione in Joyce
James Joyce, da Stephen Hero, del 1904, fino alle ultime pagine dell’Ulisse, prima del monologo di Molly Bloom, e poi ancora in Finnegans Wake, insiste assai su due fenomeni: quello della masturbazione, atto sessuale voyeuristico a distanza, e quello dell’adozione come atto di filiazione relazionale.
Dalla visione, durante la passeggiata di Stephen Dedalus, nell’ultima parte di Stephen Hero, prima epifania dove Stephen osserva un giovane uomo che si masturba guardando la giovane donna che si mostra oltre il cancello di casa, alla Villanella tentatrice, poesia del Ritratto del giovane artista, fino alla masturbazione sulla spiaggia di Leopold Bloom che guarda le gambe della giovane Gerty MacDowell, nell’Ulisse, e la scena della caduta, nel giardino dell’Eden (Phoenix Park a Dublino) di HCE che si masturba osservando la figlia Issy che si spoglia, mentre gli altri tre componenti della famiglia stanno a guardare. La masturbazione, l’amore a distanza, l’assenza della presenza dei corpi agglutinati, la rarefazione, diventa per Joyce una maniera epifanica lungo tutta la sua produzione letteraria e, come sappiamo, privata. Sembra un elogio dell’impotenza coeundi (sappiamo che Joyce aveva una formazione gesuitica). Potremmo dire che Joyce insegna che una coppia può avere la chance di avere rapporti amorosi, persino incestuosi (e ciò oggi gli provocherebbe strali infiniti, per questo Finnegans Wake è illeggibile!) non solo senza procreare, ma senza l’intromissione dell’ostacolo “corpo”.
Il secondo tema onnipresente nella produzione di Joyce è quello l’adozione. Il giovane Dedalus abbandona la comunità gesuitica per varie ragioni relative all’estetica, della quale respinge la visione tomista dell’armonia celeste per un approccio immanentistico alla quidditas. Ma soprattutto Joyce crede nell’eresia adozionista. Ci crede perché ritiene che il vero rapporto di filiazione sia un rapporto di affiliazione: non si tratta di un certo signor Simon Dedalus, o del proprio padre biologico. Nel caso Stephen Dedalus dell’Ulisse, il padre, l’ebreo Leopold Bloom, adotta Stephen, così come il figlio fu adottato dal padre. Per quanto riguarda la maternità, ci resta il ricordo del rifiuto di inginocchiarsi davanti alla morte della madre biologica e la sua espressione “Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo”. Il riferimento al segreto di una presenza materiale biologica e all’evidenza di una dimensione singolare dello spazio, il locus “certo” della generatività.
Se nella modernità, le tecniche mediche per ridurre la mortalità infantile si son rivelate “provvidenziali” – con tutte le conseguenze mitologiche che questo termine comporta – nella post-modernità, l’ingresso della biotecnologia nell’utero materno sembra avere trasformato il desiderio erotico generativo, lasciandoci solo il genitivo oggettivo: il bisogno di avere un figlio che sostituisce e occlude il desiderio erotico.
Oggi vediamo coppie che cercano ostinatamente di avere figli, che sono bio-tecnologicamente fertili, ma che – per via delle barriere sociali contemporanee, come la performatività, il bisogno smodato di fare vacanza, sport, tempo “libero” – sentono il bisogno di avere un figlio. Come trasformare questa domanda in desiderio erotico e generativo è compito della clinica che esercitiamo quotidianamente.
Fotografia: ©Tadeusz Kantor, La Classe Morta
Bibliografia
Barbetta, P. “Introduzione” a Sergio Benvenuto Lo psichiatra e il sesso, 2021, Mimesis
Deleuze, G. Empirisme et subjectivité (1953)
Derrida, J. La dissemination (tel quel) (1972)
Scarry, E. The Body in Pain (1987)