Di che cosa ci si lamenta oggi rispetto ai figli e più in generale ai bambini, per esempio a scuola, quando si dice che non ascoltano, che parlano male, che vogliono tutto e subito, che non rispettano alcuna regola? Non si fa altro che rimproverarli di mettere in azione una volontà di godere senza limiti invece di passare attraverso la parola. Parlare però richiede un interlocutore disponibile e un desiderio. La sovrabbondanza di schermi, di telefono, tablet, ecc. non aiutano il poco legame con gli adulti, spesso poco disponibili a uno scambio. E comunicare tramite internet, fosse pure con numeri enormi di altri internauti, non sostituirà mai un legame di parola. Perciò oggi il bambino, oggetto-perno di una famiglia, voluto spesso a tutti i costi, è però lasciato solo ad autodeterminarsi.
Per esempio, vediamo come se la cava Marco, un bambino di circa 5 anni che sua madre, molto preoccupata, mi chiede di ricevere perché, dice, soffre di enuresi. La signora vive da sola con il bambino. Non sa più cosa fare, aggiunge, per aiutarlo a risolvere quel problema che lo fa soffrire. Quando le chiedo da quali manifestazioni deduce la sofferenza di Marco, lei dice che fino a non molto tempo fa Marco era felice di andare nel letto con lei al mattino, mentre da quando soffre di enuresi, le dice che non può perché anche quella notte ha fatto la pipì a letto.
Basta che io faccia una domanda alla signora sul suo vivere da sola con il bambino, che la signora timidamente, davanti a Marco, dice che lei ha una relazione con un uomo, ma che la tiene discreta perché non vuole togliere del tempo a Marco, che magari potrebbe prendere male la sua relazione con un uomo. Ha appena finito la frase che Marco tutto raggiante dice “ueehh, finalmente la mamma ha un moroso!”. Ho ascoltato l’esclamazione come una manifestazione di desiderio e come qualcosa che poteva mettere fine all’enuresi, una costruzione che gli permetteva di tenersi lontano da sua madre. Ora poteva smetterla, come infatti è avvenuto dopo quell’incontro, di fare pipì a letto perché c’era un altro che si occupava del desiderio sua madre.
Cogliamo in questo esempio come l’efficacia del Nome-del-Padre non è attivata automaticamente e necessariamente dalla presenza di un padre, ma che ci vuole qualcosa che ha a che fare con la dimensione del dire. Il cambiamento di Marco è dovuto a una parola dell’Altro che supporta il suo sintomo. Una parola che risponde alla debolezza, al fallimento della funzione paterna. Avviene un annodamento tra desiderio, godimento e parola, necessario affinché possa essere mantenuto uno scarto vivificante tra desiderio e godimento.
Di fatto dall’inizio alla fine del suo insegnamento Lacan non ha smesso di illuminarci sul declino del Nome-del-Padre e sulla sua funzione di sintomo.
Nella lezione del 16 giugno 1971 enuncia che «Ciò che è chiamato padre, il Nome-de-Padre, se è un nome che ha un’efficacia, è precisamente perché qualcuno si alza per rispondere»[1].
L’efficacia del Nome-del-Padre consiste nel fatto che qualcuno, non per forza un padre, risponda all’enigma del desiderio dell’Altro, posto generalmente tenuto dalla madre.
La funzione paterna attua un annodamento tra legge e desiderio, nominando l’Altro come il luogo di un godimento interdetto. L’interdetto impone l’oggetto come oggetto di desiderio. La nominazione fa buco nel reale del godimento. Interdetto e impossibile si implicano l’un l’altro.
La funzione paterna non può essere ridotta al versante di interdizione, in cui consiste il fatto di designare la madre come la donna del padre o del “moroso” della madre di Marco. L’interdetto deve essere trasmesso da una nominazione che fa buco nel reale. Nominazione che non riguarda soltanto il desiderio della madre, ma anche e soprattutto il desiderio del padre.
Nella lezione del 21 gennaio 1975 del seminario R.S.I.[2], Lacan approssima la funzione del padre a quella del sintomo. Egli parla del “juste mi-Dieu”, che è anche un giusto “mi-dire”, e costituisce la versione del padre, la sua perversione come la sola garanzia della sua funzione di padre come sintomo. Se il sintomo è lettera costituisce una sorta di separazione del soggetto dall’Altro.
Nella versione sintomo, quindi nella père-version, la madre è nominata come oggetto causa di desiderio del “moroso” e non soltanto come oggetto del suo desiderio.
Il “juste mi-Dieu” di cui parla Lacan nella lezione del 1975, ossia “le juste non-dire” è il contrario di enunciare soltanto la legge e indicare l’interdetto relativo al possesso. La rivelazione da parte della madre di Marco di avere un “moroso” la situa come oggetto causa di desiderio e quindi anche come una donna tra altre.
Nello stesso seminario Lacan enuncia che una donna può occupare il posto del sintomo. Sintomo che dice non essere «autrement definissable que comme la façon dont chacun jouit de l’inconscient en tant que l’inconscient le determine»[3]. Ma anche quando il sintomo ha la consistenza del corpo di una donna per i due partner, esso è insufficiente a fare unione. Certo ciascuno gode del suo rapporto con l’inconscio, ma i posti sono dissimmetrici.
Il sintomo è un modo di godere dell’inconscio e supplisce al rapporto sessuale che non c’è, ma Lacan aggiunge un’altra condizione affinché sia veramente un sintomo: crederci.
Bisogna quindi correlare il “giusto mi-dire” della funzione padre a una donna che occupi il posto di oggetto causa del suo desiderio ma anche di sintomo-godimento, in quanto ci crede nell’amore. Non si tratta di un qualunque sintomo, ma del partner come sintomo ridotto al suo punto di inanalizzabile.
È fondamentale quindi che i figli, i bambini, credano alla père-version, che può guidarli nel rapporto tra i sessi.
Fotografia: ©Pascale Simonet – https://www.pascale-simonet.be/
1 Lacan J., Il Seminario, libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2010, p. 162.
2 Lacan J., Le Seminaire, Livre XXI, R.S.I., lezione del 21 gennaio 1975, inedito.